venerdì 31 maggio 2013

Sono passati tre anni dall'ultimo post; oggi , dopo avere letto questo articolo del prof. Giuseppe Savagnone ho sentito la necessità di condividerlo e mi chiedo possiamo, ancora,  far   finta di niente? Possiamo, ancora, permettere che fatti simili accadano? Vogliamo, per un attimo, soffermarci a riflettere?
CHI SONO I LADRI?
Si moltiplicano, in questi ultimi mesi, i casi di furto di generi alimentari. La motivazione? La fame. Del ladro e dei suoi familiari. Da «Il Mattino» on line riporto la nuda cronaca dell’ultimo episodio, avvenuto qualche giorno fa.
« Roma. Dovrà scontare sei mesi di carcere per essersi infilato dentro le tasche e sotto i vestiti una fetta d'arrosto, un pezzo di formaggio e una bottiglia d'olio. Ha rubato per fame, Filippo P., 34 anni e disoccupato, con una famiglia da mantenere e ridotto sul lastrico dalla crisi economica che nel 2010 gli ha fatto perdere anche l'ultimo lavoretto precario. Era già stato arrestato due settimane fa, per aver sottratto pane, latte e una confezione di prosciutto dagli scaffali di un supermercato (…) Processato con rito direttissimo, Filippo era stato condannato a cinque mesi con la condizionale, e liberato con l'obbligo di firma. Due giorni fa, però, l’uomo è stato sorpreso di nuovo mentre tentava di uscire dal Conad di Corso Francia con una spesa di dieci euro non pagata e nascosta sotto la giacca (…) Arrestato con l'accusa di furto aggravato (…) ha poi patteggiato una condanna a 6 mesi di reclusione che sconterà a Regina Coeli».
La crisi sta evidenziando le contraddizioni e le ingiustizie della nostra società, che sono anteriori ad essa. Sul «Corriere della Sera» ( si badi: non su «Il Manifesto») del 15 dicembre 2011 sono stati pubblicati i risultati di un’indagine di Bankitalia secondo cui, in Italia, «il 10% dei nuclei familiari più ricchi possiede quasi la metà (45%) della ricchezza complessiva mentre la metà più povera detiene solo il 10% della ricchezza totale». Sullo stesso quotidiano (2 aprile 2012) abbiamo potuto leggere che, da un altro studio - sempre della Banca d’Italia - , risulta che «nel nostro Paese basta il patrimonio dei dieci cittadini più ricchi per uguagliare quello dei tre milioni di italiani più poveri» e che «tra il 1987 e il 2008 la ricchezza familiare netta degli operai è passata dal 61,9% al 44% della media totale di tutte le classi. Mentre quella dei dirigenti è cresciuta dal 201,5% al 245,9%».
In questo arco di tempo si sono sentiti spesso richiamare da parte di autorevoli esponenti della Chiesa i cosiddetti “valori non negoziabili”: tutela dell’embrione e difesa della vita nella sua fase terminale; salvaguardia dell’idea di famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna; libertà di educazione. Condivido tutto ciò e mi sono spesso impegnato a mostrare le ragioni per cui questi punti hanno una effettiva rilevanza non solo per il credente, ma per il bene comune.
Quello che però mi sorprende è di non avere quasi mai sentito denunciare con almeno altrettanta forza le drammatiche ingiustizie che colpivano e sempre più colpiscono le persone che sono già nate e non sono ancora in stato vegetativo, le famiglie nate dal matrimonio tra un uomo e una donna che non riescono a sfamare i propri figli, la libertà di coloro che vorrebbero proseguire gli studi e non hanno i soldi per farlo. Perché la vita umana è un valore non negoziabile non solo nel momento della nascita e in quello terminale, ma anche e forse soprattutto tra questi due momenti estremi.
Qualcuno dirà che queste cose sono più opinabili. Non è vero. Al contrario: la Tradizione cristiana ha soprattutto insistito, fin dai primi secoli, sulla giustizia e sui diritti dei poveri. Lo ricorda Paolo VI nella Populorum Progressio, al n.23: «Si sa con quale fermezza i padri della chiesa hanno precisato quale debba essere l'atteggiamento di coloro che posseggono nei confronti di coloro che sono nel bisogno: “Non è del tuo avere, afferma sant'Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l'uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi” (De Nabuthe, c.12, n.53)».
La proprietà è sempre stata difesa dalla Chiesa, precisando, però, che essa non è un diritto assoluto, ma va vista in funzione della migliore utilizzazione dei beni delle terra a vantaggio di tutti gli esseri umani. Il senso delle parole di Ambrogio è chiaro: i ladri sono coloro che si annettono in modo esclusivo ricchezze che, nel piano di Dio, dovrebbero messe a disposizione di tutti. Non per carità, ma semplicemente per giustizia.
Su questo il Concilio Vaticano II è chiarissimo: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L'uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e dottori della Chiesa, i quali insegnavano che gli uomini hanno l'obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo. Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui» (Gaudium et Spes, n.69).
Come mai nella nostra società nessuno dice queste cose (nemmeno la “sinistra”)? E come mai la Chiesa non le grida dai tetti, denunziando il ladrocinio consumato sulla pelle dei poveri e dei deboli dai ricchi e dai potenti, con la stessa frequenza e urgenza con cui condanna (giustamente) l’aborto e l’eutanasia?
Ma poiché anch’io mi onoro di essere un figlio della Chiesa, se altri tacciono ripeterò ad alta voce – per quanto è in mio potere – la dottrina della Tradizione e del magistero, ribadita dai Padri conciliari: «Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui». E, se lo fa, non è lui il ladro, ma chi lo aveva privato del necessario per costruirsi l’ennesima villa, per comprare l’ennesimo yacht o l’ennesima Ferrari.
L’uomo che ha preso la carne per dare da mangiare ai figli non ha rubato nulla. Per il nostro codice penale sì, ma per la morale cristiana no. Per quest’ultima, è lui la vittima di un furto che mette a repentaglio la sua vita e quella dei suoi familiari. E se noi cristiani non interveniamo presso quel 10% di nuclei familiari che possiede il 45% della ricchezza, per spiegare loro che stanno violando il valore non negoziabile della giustizia, rischiamo di essere complici di coloro che condannano i loro fratelli e le loro sorelle a scegliere tra l’(ingiusto) arresto e la fame. GIUSEPPE SAVAGNONE

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